Quei faciloni dei giornalisti

di alex il 27 Maggio 2006

Una cosa che mi ha colpito nel mio avvicinarmi al giornalismo, dopo i miei studi filosofici, è la tendenza all’eccesso e alla faciloneria che sembra intrinseca in questo mestiere, almeno in Italia (a dispetto di quello che gli inglesi chiamano accuracy). Fanno eccezione poche testate, tra le quali, per forza di cose, il Sole24Ore. Ma non è di articoli che voglio parlare adesso, quanto più di una forma mentis, che tende alla radicalizzazione di certe idee a volte anche a discapito della correttezza concettuale.
Per esempio: di un titolo, di una frase da cambiare nel gergo si dice “non funziona”, manco fosse un oggetto rotto. Un filosofo, un ricercatore è abituato a maggiore relativismo, mentre in questo mestiere c’è una certa componente di artigianato che spinge a parecchie radicalità. Un’altra cosa che mi fa sempre ridere è la nettezza dei giudizi e degli insegnamenti nei manuali di giornalismo, dove la tendenza è a frase apoodittiche e a iperboli mascherate.

Quando si insegna una cosa bisognerebbe essere precisi. Eppure una cosa che si legge spesso nei manuali è questo aneddoto che viene raccontato per spiegare le regole della scrittura giornalistica: il direttore di una rivista svizzera a un neo assunto (quando ancora assumevano, Ndr) tra le prime lezioni ha detto “la frase è soggetto verbo oggetto. Punto. Quando devi mettere un aggettivo vienimi a chiedere il permesso”. Ora lo so che un divulgatore si può anche divertire a raccontare questo aneddoto, ma chi ne seguisse la lezione si troverebbe molto male. Avete mai visto un articolo con sole paratassi, senza subordinate? Impossibile. L’iperbole (che non veniva indicata come tale) mi sembra disorienti, più che essere utile allo studente. Che ha bisogno di indicazioni precise. Anche sugli aggettivi ci sarebbe da ridire. E’ giusto sconsigliare quelli soggettivi (un tragico incidente o, peggio, uno spettacolare incidente), ma quelli oggettivisono inevitabili nel linguaggio (“più che essere utile allo studente”). Ci sono tanti divieti insegnati alla scuola elementare che poi chi è professionista della scrittura impara a prendere con le pinze. Per esempio, il divieto alla ripetizione (alcuni arrivano a perifrasi ridicole per non ripetere un nome di città o di persona) o alla virgola dopo la e.
La realtà è che ogni rigidità di pensiero è sbagliata ed è l’anticamerà dell’ottusità, perché nessuna regola può adattarsi alla fluidità del reale.
Vogliamo fare un altro esempio di frasi fatte, dette a mo’ di istruzione per la scrittura, che hanno poco senso? Spesso chi scrive di tecnologia si sente dire, dal deskista di turno, “questo lo deve capire anche mia nonna, anche la casalinga di ~~Pontedera~~ Voghera (ricordavo male, ehm), non bisogna dare niente per scontato”. In realtà, diciamo senza pudori le cose come stanno e abbasso certi miti da divulgatori incalliti. Quando si scrive si dà sempre qualcosa per scontato, in misura direttamente proporzionale al livello di ocnoscenze che si suppone avere il nostro target. Si chiama- ma che scoperta- targettizzazione. Per esempio, si dà sempre per scontato che il pubblico sia italiano e abbia una padronanza della lingua almeno da terza media (per gli ascoltatori televisivi), anzi più probabilmente da scuola superiore (per i giornali…i semi analfabeti non li leggono). Mia nonna, che ha la quinta elementare e non ha mai sentito nemmeno parlare di Internet, non potrà mai essere il mio target. E sarebbe sbagliato rivolgersi a un target siffatto, perché è ovvio che non puoi spiegare che cosa sia Internet e un computer, ogni volta, no? E perché non è quello il target che in realtà ti leggerebbe.
Andando di un gradino più alto: anche nelle testate più divulgative, rivolte a un pubbliico che si dice “inesperto di computer” (idea web), si dà per scontato qualcosa di informatica, nei tutorial. Per esempio, che l’utente sappia accendere il computer, usare il mouse e cliccare. Ma chi è davvero inesperto queste cose non le sa fare.
Ecco perché odio le esagerazioni sentenziose, scolpite nelle tavole delle leggi, e dentro di me sorrido ogni volta che mi dicono “mi raccomando, non dare niente per scontato”. Va bene che è un’iperbole, ma a che serve un’istruzione così? Sarebbe meglio dire, per sommi capi, che cosa dare per scontato e che cosa no. E’ quello che farei io se fossi il deskista. Altrimenti tacerei ed eviterei i luoghi comuni. Ed è proprio questa la cosa che mi fa ridere: in un mestiere da professionisti della comunicazione, la tendenza al luogo comune anche quando si parla delle regole del giornalismo.