Ottima inchiesta sul fenomeno illegale delle dimissioni in bianco (se siete tra quei qualunquisti che credono inutili i giornali, leggete questo).
“Con un’unica penna ho firmato la mia assunzione e le mie dimissioni, la speranza e la condanna, sapevo che era un ricatto, sapevo che era illegale, ma avevo due figlie piccole, un mutuo, e il bisogno, disperato, di uno stipendio. Era il 2003: cinque anni dopo, quando mi sono opposto a turni di lavoro disumani, il mio principale dopo mesi di mobbing ha tirato fuori la lettera e ci ha messo la data. Sono stato cacciato, ma in realtà risultavo “dimesso”. E dunque senza possibilità di oppormi, di avere né disoccupazione né altro… Ho impiegato anni per riprendermi, il mio matrimonio è fallito, ho rischiato di perdere la casa. E oggi ancora ne porto i segni”.
E’ la conferma che accettare un’ingiustizia come compromesso ti fa perdere sia il compromesso sia quello per cui avevi accettato il compromesso. Perché le persone non possono essere calpestate senza consegeunze; nemmeno se sono loro stesse ad “accettarlo”: ogni stortura della libertà si rivela contronatura ed esplode in qualche modo.
Le dimissioni in bianco sembrano l’ultima forma di espropriazione di diritti, paradosso della trasformazione in “nuda vita” in un Paese che pure tutela al massimo i lavoratori (assunti). E ricordiamoci che senza diritti sociali anche i diritti politici vanno a ramengo.
Ma la via d’uscitoa è che non è equilibrio stabile la soppressione della nostra libertà. Forse perché, esistenzialisticamente, siamo ontologicamente liberi. E per quanto vogliamo annullarci, per quanto anche a noi a volte la libertà pesa e sarebbe più comodo per tutti non averla, siamo condannati a prendercela sulle spalle.
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