di alex il 28 Maggio 2020
Non c’è mai stato un momento più importante di questo per studiare l’intelligenza artificiale: i suoi sviluppi tecnici, l’impatto sul futuro del lavoro, sull’economia e sui nostri diritti. La pandemia e la crisi economica stanno spingendo sull’innovazione e quindi accelerando tutte le previsioni sullo sviluppo della quarta rivoluzione industriale. Tra gli altri, ne parla un recente studio del Mit Technology Review (
Covid-19 and the workforce): impatti che prima erano previsti a 3-5 anni, da precedenti studi (Accenture, McKinsey, ancora nel 2019) ora sono davanti a noi: gli esperti prevedono una più ampia diffusione dell’intelligenza artificiale nelle case, nelle aziende, negli ospedali e nelle strade. Serve per aumentare l’efficienza della macchina economica, della pubblica amministrazione e per favorire il lavoro in un’era di distanziamento sociale. Ne deriva una grande opportunità di sviluppo, ma anche rischi importanti per i nostri diritti sociali e civili.
Un assaggio lo si è già visto in questi giorni: robot e droni usati come distanziatori sociali in alcuni Paesi (Singapore, India) sono una prova di come lo sviluppo dell’automazione può essere applicato allo scenario pandemico con un possibile impatto sui diritti fondamentali. Idem l’escalation di tecnologie di sorveglianza di massa che c’è stato in Cina – con droni, riconoscimento facciale, app di tracciamento obbligatorie. La pandemia è servita come opportunità per potenziare l’apparato di sorveglianza di Stato, che era già massiccio. E ora si riporta la tentazione – in una prima città cinese, Huangzhou – di rendere permanente il nuovo apparato, per esempio obbligando a usare l’app che registra il proprio stato di salute anche in contesti post-emergenziali. Chi non dimostrerà sull’app (e all’app) di essere in piena salute potrà avere difficoltà a lavorare e subire diverse discriminazioni. Più la tecnologia consente a Stati e organizzazioni di limitare i diritti civili, più è importante il ruolo delle norme a loro tutela: in Europa, il regolamento europeo Gdpr.
L’accelerazione tecnologica crea sfide anche ai lavoratori, che dovranno imparare a collaborare con le macchine o a cambiare percorsi di carriera. Uno studio del Mit di maggio stima che 30-50 milioni di posti di lavoro saranno in vario modo impattati dall’intelligenza artificiale nei prossimi anni. Tra gli scenari da evitare non c’è solo la crescita della disoccupazione ma soprattutto quella delle diseguaglianze economiche (per esempio tra lavoratori specializzati, che convivranno con le macchine intelligenti, e lavoratori che ne saranno invece sostituiti).
Nei confronti di un grande cambiamento, delle opportunità e dei rischi che ne derivano, lo strumento migliore a disposizione dei cittadini è la conoscenza (“Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”, Luigi Einaudi). Questo è l’approccio del libro Intelligenza Artificiale, scritto dal sottoscritto Alessandro Longo e dal noto giurista Guido Scorza (dal 4 maggio nelle librerie e in versione digitale, pubblicato da Mondadori Università).
Dopo la prefazione, dell’ex garante privacy Francesco Pizzetti e professore emerito di diritto costituzionale all’università di Torino, un capitolo di introduzione all’intelligenza artificiale permette di coglierne le basi storiche e tecnologiche. Si approfondiscono poi le promesse e i rischi dell’intelligenza artificiale, in termini economici, sociali, giuridici. Quindi gli impatti in vari ambiti: il lavoro, la casa, la mobilità, la Sanità.
L’ultimo capitolo espone gli strumenti normativi su cui possiamo fare leva, a tutela dei nostri diritti, e si spinge ad avanzare alcune raccomandazioni giuridiche
Bisogna continuare sul solco tracciato, portando a compimento i progetti di PA digitale già avviati. E finalmente offrire ai cittadini maggiori benefici concreti, dalla digitalizzazione della macchina pubblica.
Al tempo stesso, si acceleri, forti di un nuovo impegno politico: con una governance politica più forte sui temi del digitale e a un’iniezione di competenze (digitali) tra i dipendenti pubblici.
C’è solo da sperare che il prossimo Governo mostri maggiore consapevolezza. Maggiore aderenza al presente. E faccia suo il principio, ormai assodato, che il digitale non è un settore a parte nella società e nell’economia. Da trattare a fianco (o magari in subordine, com’è avvenuto finora) di altri ambiti. Come il lavoro, l’immigrazione, la Sanità.
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di alex il 11 Febbraio 2018
Dopo settimane in cui la politica sembra aver disinvestito nel digitale, un cambio di passo è necessario. I nuovi protagonisti del dibattito elettorale siano resi consapevoli del ruolo trasformativo dell’innovazione. Un ruolo che anche la nostra testata Agendadigitale.eu intende assolvere. Con il suo modello distintivo: l’agorà permanente
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di alex il 18 Dicembre 2017
C’è un fantasma che si aggira sul futuro innovativo dell’Italia. E si chiama reset. Governance del digitale azzerata, dopo cinque anni di (relativa e travagliata) continuità. Ci sarà infatti, com’è noto, un nuovo Governo, e le scadenze del direttore generale dell’Agenzia per l’Italia Digitale e del Team Digitale Piacentini. I “direttori d’orchestra” del digitale in Italia insomma vanno via, su tutti gli ambiti dell’Agenda: la trasformazione della pubblica amministrazione, la banda ultra larga, industry 4.0, la cybersecurity.
È necessario ora non cadere preda dell’ansia per il futuro. E chiedersi con forza due cose, concetti magari da passare a chi fare il digitale in Italia nel 2018 (e oltre).
Primo: che cosa abbiamo fatto di buono in questi anni e quindi su cosa dobbiamo continuare, accelerando. Secondo: cosa fare per migliorare.
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La sensazione è quella di trovarsi davanti al grande salto. Dobbiamo saltare, questo è certo, perché dietro di noi avanzano le fiamme. Che si chiamano perdita di produttività Paese, declino nella competitività mondiale. Dobbiamo saltare, anche se c’è un burrone tra noi e il mondo digitale che abbiamo di fronte. E le gambe sono fiacche, abbiamo appena indossato un abbigliamento (forse) adatto all’impresa, e abbiamo pochissimo tempo per allenarci. Eppure, bisogna saltare. Tra le mani, il manualetto di istruzioni per almeno provarci, a fare questo salto della vita: il (primo) piano triennale 2017-2019 della spesa pubblica informatica. Pubblicato ieri, com’è noto, con firma del premier Gentiloni.
Quante aspettative, riposte in questo piano. L’abbiamo atteso per un anno buono. Adesso è arrivato e già appare evidente che è solo un punto di inizio. Che la sfida davanti a noi richiede altri strumenti. Un altro piano, probabilmente, più dettagliato e a un livello ancora più pratico (“basso”), laddove questo piano triennale si può considerare solo il primo passo attuativo del Crescita Digitale del 2015 (che a sua volta era un passo avanti rispetto all’Agenda Digitale di Monti del 2012).
Se leggiamo gli articoli dei tanti esperti ospitati nel nostro speciale sul piano, possiamo percepire qui e lì qualche nota di attenzione. Molti riconoscono che la sfida è complicata; del resto il piano è arrivato un anno dopo il previsto e ha target già nel 2017; del resto, perché si realizzi quella grande trasformazione Paese, deve avvenire proprio quella cosa che di solito in Italia non riusciamo a fare bene (negli ultimi decenni, in molti ambiti, mica solo nel digitale): uno sforzo congiunto di sistema. Tutti a remare in modo coordinato nella stessa direzione. E tutto questo bisogna farlo con una governance ancora incerta e modalità che sono ancora tutte da costruire – appena abbozzate nel piano, ecco perché già si comincia a parlare, in incontri con gli stakeholder, di un prossimo piano attuativo del piano triennale. Il piano del piano del piano (che era il Crescita). E chissà quando i cittadini vedranno i primi effetti tangibili di tutto questo “pianificare”. Certo non li hanno visti con Spid o con PagoPa.
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